Quando sei in alto e tutto è più piccolo ti allontani da ogni cosa: una lezione zen su come educare la mente negli attimi di piena.
Phosphorescent in apertura e un Alcatraz visibilmente pieno e composto in attesa dei National. Arrivano e mi trovano pronta sotto il palco. Sono così vicino da percepire ogni mossa, ogni gesto, ogni minuscola espressione. Vestito di nero, barba incolta, timbrica baritonale che non fa una piega dal vivo e non mi delude nemmeno un po’. Si inizia con Runaway e Anyone’s Ghost dall’ultimo lavoro “High Violet”, si prosegue con Mistaken For Strangers da “Boxer” e la scaletta inizia a condensarsi in salti temporali di album in album. I suoi gesti nervosi mi ricordano Ian Curtis ma senza l’epilessia, solo timidezza e vino bianco. L’aria stralunata di un: “davvero ho riempito questo posto?” e l’osservare la band in distanze di angolazioni diverse come a dire – ok, voglio tenervi bene a mente. Voglio portarvi a casa per vedere se il giorno dopo siete esistiti davvero.
Mi piace vedere la gente perplessa quando Berninger – dalle ballate in mi minore – gli urla addosso, tirando fuori pezzi come Abel. La sezione ritmica sostiene Matt, i fiati impreziosiscono e rendono raffinate le liriche spaccacuore. Mr. November agita la folla e Terrible Love la accarezza e proprio quando tutti sono più tranquilli Matt si lancia sulle teste e dalla prima fila non lo vedo più. Il filo del microfono si allontana metro dopo metro e il mio cantante rockincazzatopop sparisce mentre fuori piove.
Esco dall’Alcatraz, cammino verso l’albergo e mi rendo conto di essere di nuovo sospesa nel cielo. Senza turbolenza.
BanAle
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