Entro alle dieci e mezza, troncando bruscamente una conversazione al cellulare, come strattonato, tirato per la giacca dentro la sala del Circolo. Gremita. E’ strano, penso, come la prima nota mi sia arrivata pulita alle orecchie, mentre ero ancora all’esterno. Cammino in cerca di una posizione centrale, il posto giusto, dove avere il suono più limpido possibile. Dopo pochi passi, il tempo di rendermi conto che non dovrò sforzarmi più di tanto per trovarlo, mi fermo. Sembra che tutti qui abbiano la sensazione di attesa. Eppure stanno già suonando, i nostri. Nostri, è questo che sono. Non è soltanto attesa, è qualcosa di più: una festa di bentornato dopo un viaggio, un ritrovo di vecchi amici che si erano persi di vista. Le facce intorno a me sono diverse, ma così simili in quell’espressione fatta di un misto di sorpresa e curiosità. Siamo bambini che scartano il loro regalo, premio per aver saputo aspettare, accordando le orecchie al suono di quei dischi ormai lontani, di certo più lontani nel tempo di quanto avremmo voluto.
C’è chi deve averli scoperti dopo – basta contare le rughe sulla fronte, righe di un vinile consumato, che a sua volta ha consumato puntine.
Eccolo il regalo: dodici pezzi dodici, suonati uno dopo l’altro. L’ascolto collettivo delle nostre Cattive abitudini. Il silenzio viene interrotto dagli applausi, tra un pezzo e l’altro. Emidio Clementi a tratti sembra appoggiare la voce su un tappeto sonoro, le chitarre di Egle Sommacal e di Stefano Pilia, salvo poi ingaggiare duelli con le gran pestate di Vittoria Burattini su una batteria per cui proprio non riusciamo a provare compassione, e increspare il timbro di solito così pulito. Quasi stesse urlando la sua presenza, l’essere vivo, l’essere lì a fare il rock come dieci anni fa, meglio di dieci anni fa.
Non so più se il regalo sia quello dei Massimo Volume al pubblico, o viceversa. Gli applausi si fanno ad ogni pezzo più convinti, il silenzio durante le esecuzioni una nuvola che si carica di elettricità. Come se questa esecuzione del nuovo album fosse un modo per rompere il ghiaccio, un rivangare vecchi ricordi. E’ questo che mi fa pensare l’espressione, la mimica di Mimì, come quella di Stefano Pilia, che scopro ripiegato sulla sua chitarra nei passaggi più cupi e fieramente slanciato in quelli più post-rock, su cui ha decisamente stampato il suo marchio; Egle e Vittoria: imperturbabili, monumenti a se stessi, a loro agio in qualsiasi passaggio, capaci di cedere il passo ai sodali – e pensiamo al ruolo del primo, solo apparentemente sacrificato nel ricamare le melodie più tenere.
Escono di scena la prima volta, consci di aver rimesso le cose a posto, riarrotolato i fili che ci legano a loro, ognuno a modo proprio. Siamo un gomitolo gigantesco di cento sensazioni e colori diversi, quando rientrano. Attaccano Il primo Dio e l’elettricità esplode. Non mi ricordo poi molto, di Lungo i bordi, Fuoco fatuo, Vedute dallo spazio e Ororo. Ricordo di essermi sentito urlare Leo è questo che siamo, di aver sentito urlare i miei vicini che poi comincia la polvere. A dire il vero, sulla mia nuova copia di Stanze non ce n’è. E se mai ce ne fosse stata, i Massimo Volume se la sono definitivamente scrollata di dosso.
Cattive abitudini (le nostre), quelle di indagare le intenzioni, le scelte di una scaletta che potrei forse spiegare con la faccia dei quattro al rientro per il secondo bis, o piuttosto con le quattro(cento) urla che hanno accompagnato le prime note di ognuna delle riproposizioni di vecchi brani. Vecchio di cui non hanno nient’altro, questi qui.
Tender Branson
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